(divagazione pubblicata nel libro La Tua Libertà edito da Domus Academy e Marietti 1820, nel 2000)
Nel baccanale del chiasso più cose si odono meno se ne ascoltano.
Profluvi di parole altisonanti intorbidano quella comprensione che il tacere promuoverebbe con bastevole chiarezza e con gradita discrezione. Maree di fragorosi suoni ci sommergono anche su quelle ultime spiagge di un anelito al silenzio vitale: nel sobrio feudo del quale molte voci ci parlerebbero. E dove potrebbe accaderci di udire il gemito della nostra intimità, insieme alla voce di coloro che ci parlano con amore e che più non udiamo nel fragore della quotidianità. È “inaudito” chiedere un po’ di rispetto per il desiderio di quieti dialoghi, di scambi sereni, di tacite proposte, di commerci rispettosi e silenziate industrie? Vivere produce suoni; non questo osceno baccano che rende sordi, afoni, afasici.
Gli animali delimitano il loro territorio con tattiche olfattive. Se al Chiasso è destinato il compito di additare il nostro territorio, l’ubiquo rumore testimonierebbe che non disponiamo più di spazio alcuno, ovunque squillando l’assordante segnale dell’altrui presenza.
Ma tacere non è più virtù: quella virtù raccomandata dal detto “un bel tacer non fu mai scritto”. Ascoltare ciò che occhi, mani, postura hanno da dire è esercizio negletto. Eppure ci sovviene lo sguardo con il quale guardammo o fummo guardati con amorosi intenti. Quello sguardo riuscì madrigale più effusivo della chiassosa serenata.
Tacere per ascoltare. Tacere per dire ancora cose che alle parole sono ormai negate dall’orgia del baccano.
Ma tacere non è più possibile. Né lo è parlare. Siamo sovrastati dai rumori ai quali le parole sono assimilabili. Divenute rumore esse stesse concorrono al turpe prevalere del Chiasso. Nel quale naufragano anche le più elementari strutture linguistiche. Grammatica, sintassi e retorica presuppongono infatti, oltre che la nozione delle loro regole, una concentrazione e una quietudine che sole consentono la loro corretta ed efficace articolazione. Il sofista poté piegare, con virtuosismo retorico, la propria argomentazione a qualunque fine. Un esercizio praticabile in presenza di un tacito uditorio. Inesperibile ovunque ci sia rumore. Nell’orazione funebre che Antonio eleva nel Giulio Cesare scespiriano le sue parole sono pronunciate allorquando sopraggiunge il silenzio della plebe, precedentemente infervorata da altre parole: quelle di Bruto. Fra l’umore indotto dalla retorica di Bruto e il furore scatenato da quella di Antonio solo il silenzio e il silenzio soltanto consente alle parole di Antonio di operare lo spostamento su Bruto della latente furia omicida dell’uditorio. Il compito di ammutolire la plebe chiassosa arringata da Bruto non è assegnabile alle parole: per mancanza di silenzio. Ad esse dunque rinuncia Antonio per affidarsi alla sola apparizione ed esibizione del corpo piagato di Cesare. A quale retorica affidano i giovani l’orazione funebre della loro precaria giovinezza? Al tonitruante turpiloquio? Conformistico come il pudico parlare delle generazioni passate, esso risulta acusticamente becero e sguaiato. A tal punto da far rimpiangere le reticenti e afasiche fanciulle analizzate da Freud.
Il perenne rumore dei “tempi moderni” disarticola il discorso, lo rende superfluo. Le parole che significano non sono più. Le parole che affascinano tacciono. Le parole che ammansiscono, elevano, precipitano, turbano, ispirano, scatenano sono petali reclinati di un fiore appassito: nel deserto del rumore. La retorica vi si adegua: l’iperbole la fa da padrona; la reticenza langue nell’arcadia dei ricordi. La retorica dello spot pubblicitario, conoscendo a meraviglia quanto “il tempo sia denaro”, deve spararle grosse e in brevissimi istanti. A volume altissimo, ovviamente. Passando dall’ascolto di un dialogo radiofonico o televisivo a uno spot pubblicitario il volume conosce un subitaneo, lancinante e automatico innalzamento, a dispetto del nostro udito. E non solo di quello.
Dall’inquinamento acustico non ci protegge ecologia alcuna. Si privilegia il fungo velenoso – purché in fase di estinzione – al nostro diritto alla quiete e al silenzio: premesse di pensieri affioranti. Ci consumano i timpani ma nessuno ci considera consumatori truffati dalla violenta intrusività dei rumori pornofonici. Forse perché il rumore ci “protegge” dai pensieri e soprattutto da quei pensieri che farebbero riflettere se avessimo ancora “orecchie” per “ascoltare”. Quelle orecchie perennemente violentate dagl’ineludibili rumori. Dov’è il telefono amico dello stupro uditivo, consumato sotto le nostre orecchie? Ancora e soltanto sesso per indignarci?
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In questo assordante contesto ecco apparire un nuovo, delicato, eufonico strumento musicale: avanza e s’impone all’attenzione di tutti con conseguente modo nuovo di far musica e fruirla. Si tratta di un aerofono improprio – tale è la paludata terminologia musicologica – sconosciuto alla precedente tradizione musicale colta e popolare ma così repentinamente coinvolgente da trasformare gl’innumerevoli neofiti in professori di un’orchestra planetaria dai connotati acustici singolari. Un risultato che strategie scolastiche millenarie hanno mancato. Non a caso si è scelta la parola “professori”. Dello strumento in questione si conoscono versioni molteplici; ma è la molteplicità e il virtuosismo delle modalità esecutive a imporsi e sorprendere.
Taluno lo suona per esprimere incontenibile gioia: ludica, matrimoniale, politica, ecc. È un suonare corale con aspetti poliritmici. Talaltro intende “toccarlo” (nel senso di Toccata) per mandare messaggi vari o nello stile colto o nello stile popolaresco. Il secondo risulta prevalente per la ridondanza di testi inadatti ad una pratica musicale evoluta. Si tratta infatti di pochi e ricorrenti aforismi contenenti velatissime allusioni ad un erotismo ellenico, spontanee e idilliche evocazioni della professione o vocazione della madre del dedicatario, riferimenti alla lodata fedeltà coniugale (nello stile del Fidelio o Dell’Amore Coniugale), rampogne, dinieghi, rimbrotti contrappuntati da solerti e sagaci risposte rieccheggianti le antiche movenze musicali del Responsorio e dell’Antifona. Brevettati marchingegni consentono di suonarlo – in modo mediato e un po’ furbesco – anche durante l’assenza del legittimo proprietario. È sufficiente essere visitati da forte e urgente passione musicale e toccarne alcune parti protette per produrre suoni dei quali il suindicato e legittimo suonatore è geloso, oltre che fiero. C’è infine chi lo suona con accenti davvero tragici quando “scontrandosi” con altro suonatore più bravo o più fortunato, il primo soccombe alla maniera dell’incauto Marsia che osò sfidare il vendicativo Apollo nella memorabile, mitologica e musicale disfida. Nella quale – come narrano accreditati testi – ci “lasciò la pelle”. Apollo infatti lo scorticò
Si sta parlando dello sperimentatissimo clacson, questo garbato strumento che ha fatto d’ogni automobilista un musicista, con insopprimibile vocazione comunicativa. Il maggiore beneficiario delle effusioni musicali del suonatore di clacson è sempre quell’appagato apparato uditivo così generosamente sollecitato e così avido di reiterate esperienze. E dire che la nostra attuale fu improvvidamente ritenuta la civiltà dell’immagine. Ma quando mai l’automobilista versato in “suoni e luci” preferirebbe dare convincente prova di una prestazione di videoart (eppure l’automobile dispone di un sofisticato, variegato e graduato sistema di luci) piuttosto che cimentarsi con qualche esempio d’invenzione musicale? Per la quale propende quando, affidandosi al proprio estro, intona inni alla convivenza e alla tolleranza. È una sana e robusta vocazione musicale quella che “erompe” dai cofani. E hanno torto coloro che insistono nel dire che quella vocazione “rompe”. Hanno torto. Come ogni musicista sa la didimoclastia non è praticabile con mezzi musicali, non essendo gli attributi maschili sensibili al suono. I timpani sì.
E che cosa dire di quell’altra musica prediletta dall’ottimismo futurista e che si esprime gioiosa con tubi di scappamento, marmitte, motorini e altri strumenti dotati d’attenuative sordine capaci di carezzare voluttuosamente le orecchie più sensibili e raffinate?
L’elenco degli strumenti della nuova musicalità ha conosciuto recentemente un significativo incremento – di qualità alta e altissima quantità – grazie alla telefonia cellulare e alla sua inesauribile versatilità e inventiva musicali. Alcuni luoghi privilegiati s’erano inspiegabilmente e deplorevolmente preservati dalla straripante vis musicale (chiese, cimiteri, musei, ospedali, camere mortuarie, sale operatorie, conventi di clausura): luoghi nei quali era ancora attingibile – pur con mille eccezioni ed intrusioni – un parziale e moderato silenzio. Di fronte ad una smania musicale irrefrenabile – quale si è tentato di lumeggiare sopra – anche quelle nicchie di silenzio sono state alfine espugnate da una Musa tanto invocata. Ed ora è fondato affermare che nessun luogo può più resistere alla musica.
Per la verità non ci sono notizie certe della conquista degli spazi sottomarini e interplanetari. Ma sarebbe deprecabile pessimismo temere che possano trascorrere lustri prima che anche i succitati e riottosi spazi non siano opportunamente guadagnati alla nobilissima arte dei suoni.