la tonalità, ultimo codice
socialmente condiviso;
codici successivi non tonali,
socialmente non condivisi.

(Appunti per una lezione tenuta al Politecnico di Milano-Bovisa il 19.4.2002, durante un Master in e-design. Il presente testo – consegnato a ignari ma curiosi studenti – persegue una semplice strategia divulgativa. Considerazioni meno ovvie furono affidate al dialogo con gli studenti, e non sono qui leggibili.)

A. Schoenberg: schema speculare

Premessa.
Nell’ambito della musica colta occidentale e a decorrere dall’inizio del Novecento si produsse, per la prima volta, una divaricazione fra compositori e fruitori della loro musica. Le cause di questo divergere dei contraenti di un rapporto prima saldo e felice furono molteplici. In questa sede non ci si occuperà della componente sociale o sociologica di quella divaricazione. L’attenzione sarà posta soltanto sulla crisi della tonalità – ultimo codice socialmente partecipato – e sulla conseguente adozione di codici non tonali (o extratonali), privi di condivisione sociale. I quali, proprio perché socialmente non diffusi, generarono un inevitabile allontanamento della comunità dei fruitori da quella dei compositori. Incapaci di riconoscersi nei codici non tonali gli ascoltatori regredirono alle stagioni note della tradizione tonale e preferirono “riconoscere” piuttosto che “conoscere”. Il rigetto delle opere scaturite da codici ignoti fu determinato anche dalla presenza in quelle opere di tecniche compositive tendenti al diniego dell’ascolto. L’attitudine di molti compositori ad adottare soluzioni linguistiche esoteriche fu incoraggiata dalla negligenza degli ascoltatori per tutto ciò che suonasse nuovo: a prescindere dalla qualità della novità. Occorre infine richiamare l’attenzione su una condizione linguistica imprescindibile: non si dà esito estetico significativo in assenza di una grammatica. I compositori che abbandonarono la grammatica tonale dovettero darsene una sostitutiva. L’ineluttabile ignoranza sociale delle grammatiche di nuova adozione e la loro babelica proliferazione resero inattingibili tutte quelle opere che postulavano una grammatica ignota. La più sublime poesia in una lingua sconosciuta è essa stessa inconoscibile.
Fra compositori dediti a codici extratonali, non condivisi, e il pubblico si determinò una condizione di reciproca disconferma che non cessa – neppure ora – di produrre guasti. Nel corso del Novecento la labirintica situazione non si modificò apprezzabilmente. Soverchiata da logiche da industria culturale, la musica di consumo adottò, banalizzandola, la tonalità. La musica colta non tonale sopravvisse e sopravvive all’interno di un ghetto, vivendo le proprie sperimentazioni linguistiche con conseguente, disperante solipsismo. Presagi di una confluenza dei molteplici codici extratonali verso una grammatica condivisa, alternativa alla tonalità, sono captabili. Ma non tali da consentire facili e sollecite soluzioni.

CODICI NEOTONALI ED EXTRATONALI.
Una contrapposizione potrebbe essere schematicamente posta fra codici extratonali e codici neotonali. I primi – talora altamente formalizzati, talaltra di natura extramusicale – sono rinvenibili nella scrittura delle neoavanguardie degli anni Cinquanta del Novecento. I secondi furono esemplificati soprattutto dalle poetiche neoclassiche. Tale schematizzazione lascia però inespugnato il labirinto che la metastasi dei codici ha smisuratamente ingigantito.
Sembrò che fra i codici extratonali e neotonali non ci fossero che divaricazioni. Ma entrambi additavano l’imprescindibilità di una grammatica, senza la quale non era possibile alcuna operazione linguistica.
Coloro che adottarono un codice extratonale (le cosiddette avanguardie e neoavanguardie) sentirono esaurito quello tonale e concorsero – forse – alla futura nascita di un codice alternativo. Verso il quale le sperimentazioni potessero convergere, consentendone la condivisione con una collettività non più privata di una grammatica nota. Non considerarono prioritario il ruolo dell’ascolto e, privi del contatto con gli ascoltatori, non si avvidero che la loro scrittura volgeva verso soluzioni solipsistiche. In alcuni casi essa sfociò in una radicale negazione della musica in quanto “arte dei suoni” e dunque dell’ascolto. Talora il rifiuto collettivo del codice extratonale coinvolse in tale diniego anche opere riuscite; talaltra la pregiudiziale simpatia per i codici extratonali non consentì di cogliere l’inneficacia e l’asetticità di taluni esiti.
Coloro che al contrario fecero proprio un codice neotonale (i compositori neoclassici, neotonali, neoromantici) negarono affidabilità a qualsiasi grammatica che non fosse quella tonale. I più avveduti introdussero comportamenti sghembi che segnalassero il presente ogniqualvolta un’aberrazione linguistica deviava il corso del risaputo. Non si candidarono certo alla solitudine e all’incomprensione e contribuirono meno alla nascita di un codice che fosse ad un tempo nuovo e condivisibile. Non negarono il ruolo dell’ascolto ma talvolta la facile comprensibilità e il conseguente apprezzamento del codice adottato consentì loro di beneficiare della sopravvalutazione degli esiti che da quel codice avevano sbrigativamente ottenuti
Nel corso del Novecento e della crisi della tonalità, l’adozione da parte dei compositori di un certo codice di organizzazione dei suoni portò ad attribuire loro patenti di progressismo o regressismo che abilitarono più allo scontro ideologico che alla comprensione delle opere. Si sopravvalutò inoltre l’importanza della stessa adozione di un codice piuttosto di un altro. Connotare la fisionomia estetica complessiva di un compositore è operazione più complessa del censimento dei mezzi da quel compositore adottati. Nell’opera confluisce una molteplicità di aspetti che va ben oltre l’ ipotesi di organizzazione armonica dei suoni. Schönberg è – dal punto di vista formale – talvolta molto più “tonale” e dunque “regressivo” dello Stravinskij “fauve”.
Sorprende osservare che quei compositori (Boulez, Ligeti, Messiaen e altri) i quali sperimentarono soluzioni linguistiche inattingibili all’ascolto, una volta superata la fase del radicalismo linguistico, seppero darci opere di altissimo valore, anche dal punto di vista comunicativo. Chi, guidato dal “buon senso” si tenne alla larga da perniciose avventure intellettuali e coltivò la remunerativa pratica della “comunicazione” e della “espressività” (cara ai compositori della musica di “consumo”) ci ha regalato esiti non convincenti. Fra costoro molti sono gli estimatori di Stravinskij. Ci si chiede allora se abbiano mai letto ciò che Stravinskij stesso scrisse a proposito della comunicazione e della espressività?

PRESAGI DELLA CRISI DELLA TONALITÀ. CODICI COMPOSITIVI ALTERNATIVI.
Arnold Schönberg (1874-1951) – compositore e teorico viennese, animatore, insieme ai discepoli Alban Berg e Anton Webern, della Seconda Scuola Musicale di Vienna – in un saggio dal titolo Composizione Con Dodici Note, enunciò un codice compositivo da lui per primo sperimentato. Più noto come Dodecafonia, fu da lui denominato “metodo di composizione con dodici note che sono in relazione solo l’una con l’altra”. In esso l’autore sostenne alcune tesi qui di seguito sintetizzate.

1. Pariteticità di tutte le dodici note della scala cromatico-atonale.
La scala cromatica, privata di qualsiasi gerarchìa sistemica interna e nominata totale cromatico fu opposta alla disparità delle sette note della precedente scala diatonico-tonale, dotata di un’articolata e immanente gerarchia.
All’interno della scala diatonico-tonale, ciascuna delle sette note disponeva di una precisa funzione e concorreva ad una dialettica fra tensione e distensione. Il codice tonale, basato sui due modi maggiore e minore, destinava infatti alle sette note di ciascun modo un’articolazione di ruoli che metaforicamente era paragonabile a un sistema gravitazionale con due centri principali, fra loro correlati. Attorno ad uno di questi poli (la dominante o V grado della scala) gravitavano tutte le funzioni armoniche e melodiche caratterizzate da tensione. L’altro polo (la tonica o I grado della scala) attraeva a sé tutte le tensioni presenti nella dominante e nei gradi della scala con essa connessi. Nelle stagioni auree della tonalità (collocabili all’incirca fra l’inizio del Settecento e la prima metà dell’Ottocento) esisteva una equilibrata dialettica fra tensione e distensione.
In concomitanza dell’adozione del codice dodecafonico (intorno al 1920), Schönberg sperimentò l’impotenza formale e dichiarò di sentirsi smarrito nel non potersi più avvalere delle “funzioni strutturali” dell’armonia tonale, da lui negate. L’inettitudine formale del metodo adottato (soggettiva o oggettiva che fosse) sospinse il compositore in due direzioni diverse. Seguendo la prima, verso la quale si mosse per la musica strumentale, l’autore attuò la regressione storica verso forme preclassiche della prima metà del XVIII secolo. Esse risultarono arbitrariamente estrapolate dal contesto tonale con il quale quelle forme intrattenevano un rapporto di reciproca imprescindibilità. Seguendo la seconda, verso la quale si orientò per la musica vocale, ricorse all’organizzazione del testo letterario, le cui articolazioni formali furono importate nell’architettura musicale, incapace di trovare, almeno inizialmente, nel codice dodecafonico le occasioni per strutturarsi autonomamente.

2 Intuizione dell’idea di Serie.
La melodia – basata sull’articolata scala diatonico-tonale e dotata di quei valori formali che la scala gerarchizzata consentiva – si trasformò in Serie, basata sulla disarticolata scala cromatico-atonale. La Serie immaginata risultò priva di valori formali, non scaturibili dalle dodici note indifferenziate. Ne conseguì l’annichilazione della dimensione armonica che in virtù della sancita pariteticità delle dodici note della scala cromatico-atonale smarrì ogni funzionalità formale o strutturale e divenne casuale simultaneità di suoni. Coloro che non hanno dimestichezza con questi problemi potranno meglio comprendere l’idea di serie rispetto a quella di melodia pensando al significato che la parola ha nella produzione industriale “in serie”: perdita d’individualità. La melodia basata sul codice tonale era invece dotata di fisionomicità che coinvolgeva l’armonia della quale era dotata.

3 Spazializzazione della musica.
La musica, in quanto “arte dei suoni”, si attualizza nel tempo, nella cui dimensione si svolge l’esecuzione e l’ascolto. Lo spazio è coinvolto soltanto per quanto attiene la notazione musicale. Schönberg enunciò la seguente affermazione: “Lo spazio a due o più dimensioni nel quale sono presentate le idee musicali è un’unità”. In Schönberg la spazializzazione della musica fu apertamente sancita con l’affermazione testé riportata. Coerentemente con questa enunciazione la spazializzazione fu perseguita riattivando antiche tecniche compositive nelle quali le forme a “specchio” (delle quali si dirà oltre) sostanziavano di sé la scrittura musicale a tal punto da sospingere il segno, percepibile nello spazio, verso una preminenza sul suono, il cui evolversi è percepibile nel tempo.

Le forme a specchio, di antichissima origine e caratteristiche della scrittura contrappuntistica evoluta (sia essa del XV e XVI secolo – esempio: Palestrina – sia del XVIII secolo – esempio: Bach) tendono ad una intrusività del segno il quale, quando non riscattato dalla perizia del compositore, mortifica l’esito del comporre, inteso come destinato primariamente all’ascolto. Le forme a specchio si basano sul procedimento dell’imitazione:

a. per moto retto;
b. per moto contrario o inverso (o “Inversione”);
c. per moto retrogrado (o “Retrogradazione”);
d. per moto retrogrado e contrario (o “Retrogradazione inversa”).

Nel contrappunto cinquecentesco e settecentesco l’imitazione per moto retto e per moto contrario consentì una riconoscibilità (superiore o inferiore, secondo il moto adottato) di ciò che venne imitato. La riconoscibilità fu invece radicalmente compromessa nell’imitazione per moto retrogrado e per moto retrogrado inverso.
Si evince che una musica basata sull’uso sistematico di artifici contrappuntistici che tendono a negare l’ascolto è una musica destinata a eluderlo. Con conseguenze devastanti sul rapporto fra compositore e suoi fruitori.

CRISI DELLA TONALITÀ E SUO SUPERAMENTO
Ci si è soffermati a lungo sul codice compositivo escogitato da Schönberg, giacché da esso discesero gran parte dei codici successivi, socialmente non condivisi. È inoltre opportuno soffermarsi sul carattere non solo soggettivo del superamento del codice tonale. Molti compositori lo presagirono come non più capace di consentire una fresca invenzione. Altri compositori, oltre a Schönberg e alla sua Scuola, captarono la necessità di travalicare la tonalità, adottando soluzioni linguistiche ad essa alternative.

Declino della tonalità
Nella seconda metà dell’Ottocento la tonalità, il codice musicale che a decorrere dal 1600 governò tutta l’esperienza della musica colta occidentale, conobbe una progressiva crisi. Via via che la grande stagione tonale volgeva al termine diminuiva sensibilmente anche il numero delle composizioni scritte dai grandi sinfonisti. Isolando la forma della Sinfonia dal contesto della loro produzione complessiva e pur valutando la diversa durata della loro vita e la differente ampiezza formale delle loro opere lo storico della musica osserva una parabola discendente che coincide con lo sviluppo della crisi tonale. Haydn (1732-1809), Mozart (1756-1791). Beethoven (1770-1827), Schubert (1797-1828), Dvorák (1841-1904), Mendelssohn (1809-1847), Cajkovskij (1840-1893), Schumann (1810-1856), Brahms (1833-1897), Mahler (1860-1911) e Stravinskij (1882-1971) composero rispettivamente 108, 52, 9, 8, 9, 5, 6, 4, 4, 9 e 2 Sinfonie Il declino quantitativo del numero delle opere fu in parte ascrivibile alla superiore partecipazione linguistica alla quale furono indotti i grandi sinfonisti dal progressivo sfaldamento del codice utilizzato e dalla necessità di porvi rimedio con impegnativi interventi che ne impedissero la dissoluzione.

A. Beardsley: Isotta cura Tristano

Alle soglie del Novecento il graduale disfacimento della tonalità sospinse molti compositori a dotarsi di nuovi codici. Si è soliti datare l’inizio di questa crisi con la composizione del Tristano e Isotta di Richard Wagner (1813-1883) : opera rappresentata a Monaco di Baviera il 10 giugno 1865 ma i primi abbozzi della quale risalgono già al 1854. L’analisi della scrittura del Tristano svela grandi sconvolgimenti linguistici. Nell’opera citata Il sistema tonale subisce una corrosione tale da minarne le fondamenta. Nelle stagioni auree della tonalità esisteva un equilibrio fra tensione e distensione. Nel Tristano questa dialettica è annichilata a favore di un parossistico incremento della tensione e della correlata “armonia dominantica”. A quest’ultima è negata una “fisiologica” distensione. Le conseguenze linguistiche furono enormi. La tonalità subì una prima destabilizzazione.
Dopo il Tristano altre trasformazioni linguistiche concorsero ad inficiare il sistema tonale. Compositori come Max Reger (1873-1916), Aleksander Skrjabin (1872-1915), Gustav Mahler (1860-1911), Ferruccio Busoni (1866-1924) e altri sperimentarono le crescenti inquietudini che attraversavano il linguaggio musicale colto e predisposero soluzioni diverse: tutte però orientate all’allargamento e al superamento del codice tonale

Cromatismo e diatonismo.
Il prevalente e precedente diatonismo della tonalità (per diatonismo s’intenda la preponderanza degli intervalli di tono all’interno della scala tonale) cedette gradualmente ma rapidamente il passo al cromatismo (per cromatismo s’intenda la ridondanza degl’intervalli di semitono all’interno della scala tonale) che risultò incrementato in alcuni compositori della seconda metà dell’Ottocento.
Ma la sospensione della tonalità non fu perseguita soltanto con il ricorso al cromatismo. Alcuni autori adottarono soluzioni diatoniche per superare la tonalità. Il diatonismo esisteva prima che si affermasse la tonalità e sopravvisse al suo declino. È rinvenibile nell’antica musica greca, nel canto gregoriano e nel contrappunto modale del Quattrocento e Cinquecento. Il diatonismo fu anzi presente nell’esperienza di alcuni compositori coinvolti nella sospensione della tonalità. Le loro armonie, private di funzionalità architettonica, pervennero al superamento della tonalità, senza ricorrere all’impiego del cromatismo.
Claude Debussy (1862-1918) è ancora percepito come il musicista dalle eleganti aure armoniche. È fuor di dubbio che quando la musica del francesissimo compositore risuona non è dato sottrarsi all’eleganza del suo incedere. Ma quell’eleganza ammanta di profumato aere una sovversione linguistica tale da far impallidire il più scapigliato sperimentatore d’avanguardia. Debussy immaginò infatti una metamorfosi della dimensione armonica, sospingendo gradualmente quest’ultima oltre la secolare funzionalità formale. Le consentì di librarsi in un soavissimo arcobaleno di suoni nel quale felicemente naufragò lo scorrere prevedibile del tempo (quello degli orologi) e propiziò l’apparizione – davvero per incanto – del magico istante. Non a caso due sacerdoti della nuova musica quali Olivier Messiaen e Pierre Boulez riconobbero in Debussy il Maestro, colui che con intuitiva sapienza e magistero sommo conciliò invenzione linguistica e grazia creativa, sublimandole in esiti eccelsi.

Sviluppo storico della serialità: “serializzazione integrale”.
In concomitanza con il tramonto della tradizione compositiva tonale, basata sul primato della melodia e dell’armonia, acquisirono grande importanza nuove concezioni seriali secondo le quali l’idea di serie fu estesa a tutti gli aspetti del suono: i cosiddetti “parametri”. L’attribuzione della mentalità seriale a Durata, Intensità (pianissimo, piano, forte, fortissimo, ecc.) e Attacco del suono (staccato, legato, ecc.) portò ad un’organizzazione seriale non più limitata alle sole altezze e denominata Serializzazione integrale.
Olivier Messiaen (compositore francese vissuto fra il 1908 e il 1992 e maestro sia di Pierre Boulez sia di Karlheinz Stockhausen) fra il 1949 e il 1950 compose Quattro Studi sul Ritmo, il secondo dei quali è denominato Modi di Valore e d’Intensità. Si tratta di una composizione nella quale la tecnica seriale, da Schönberg applicata alle sole altezze, venne estesa alle durate (valori) e alle intensità (forte, piano, ecc.).
In quest’aura di radicalismo linguistico nacquero opere come:
• Strutture I (1952) per 2 pianoforti, di Pierre Boulez (1925);
• Klavierstücke I-IV (1952-53) per pianoforte, di Karlheinz Stockhausen (1928).
In queste e altre composizioni di analoga concezione la serializzazione integrale di tutti i parametri del suono generò esiti i quali, per la tecnica compositiva adottata, non risultarono “ascoltabili” ma soltanto “visibili”. In sede di ascolto queste musiche non comunicavano alcunché che non fosse il proprio diniego dell’ascolto. Al contrario l’analisi visiva rivelò l’alto grado di artificio e astrattezza presente in quelle musiche. Un esempio di quella astrattezza furono le sincronie nelle quali le dita del pianista dovevano produrre simultanee e diverse intensità. Il pollice di una mano suona forte, l’indice piano, il medio fortissimo, l’anulare pianissimo e il mignolo mezzo-forte. Le dita dell’altra mano sono anch’esse impegnate in una prestazione analoga. Dopo pochi istanti le due mani devono produrre una nuova sincronia per eseguire la quale le dita del pianista saranno coinvolte in differenti intensità rispetto a quelle della sincronia precedente. Un’assurdità.
Il velleitarismo degli esiti conseguiti con la serializzazione integrale apparve tale proprio agli stessi sperimentatori di quella serialità. L’aver sottoposto ad identico trattamento seriale altezze, durate, intensità e attacco dei suoni fu conseguenza di un postulato fallace: considerare equiparabili i quattro parametri citati. Ma la radicata e antichissima tradizione musicale occidentale aveva discriminato l’intensità e l’attacco a tutto favore delle altezze e delle durate. Pertanto una musica basata sulla equiparazione di tutti i parametri del suono non poteva essere “ascoltata” in modo congruo da chi discendeva da una tradizione alla quale era sconosciuta ed estranea quella equiparazione. Si rammenti che J. S. Bach (1685-1750) consegnò tutta la sua musica ad una notazione nella quale erano sistematicamente assenti i segni relativi all’intensità e all’attacco. Ciò nonostante i suoi manoscritti ci pervennero pienamente comprensibili. Non è invece noto un solo caso di compositore occidentale che abbia notato l’intensità e l’attacco, privando la notazione delle altezze e delle durate.

La negazione della comunicazione come comunicazione della negazione
La scelta di tecniche compositive producenti esiti riottosi all’ascolto scaturì anche dal motivato rifiuto delle ultime propaggini di una languente tradizione operistica, gravida di una “espressività” ormai divenuta molliccia e sudaticcia. A tal punto da indurre alcuni compositori a optare per opere prive di alcuna connotazione pseudo-soggettiva, per orrore di quella “espressività”. Ben presto ci si accorse però che alla comunicazione non ci si sottraeva neppure quando ci si determinava ad estrometterla. Come insegnò un memorabile libro della Scuola di Palo Alto (La pragmatica della comunicazione umana) la “negazione della comunicazione si risolve in comunicazione della negazione”. Tanto valeva né propiziarla né opporvisi. Ma riappropriarsi delle vere e uniche competenze del compositore. Fra le quali non alligna la “comunicazione” né la sua negazione. Postulata l’impossibilità d’essere “incomunicabili” si ritornò a quel nobile artigianato che fece grande Bach, Mozart e altri compositori non impegnati a comunicare a tutti i costi. Come insegnò Stravinskij. E come fecero successivamente Berio, Boulez, Ligeti, Messiaen.

SOLUZIONI NON SERIALI ALLA CRISI DELLA TONALITÀ

Il ritmo.
In concomitanza del tramonto di una tradizione compositiva basata sul primato della melodia e dell’armonia, acquisirono grande importanza le nuove concezioni del ritmo e il concomitante ricorso agli strumenti a percussione. Al ritmo fu attribuita una preminenza prima inimmaginabile. In un saggio di P. Boulez dal titolo “Stravinskij rimane” il musicista francese affermò che Stravinskij strutturò il ritmo analogamente a quanto fecero con le altezze i compositori della Seconda Scuola di Vienna.
L’attingimento a etnie dal folclore ritmicamente nuovo, l’estensione al ritmo di una organizzazione seriale onnipervasiva, svilupparono – nel corso del primo Novecento – la componente percussiva a tal punto da suscitare composizioni per soli strumenti a percussione: tali sono Ionisation (1929-’31) di Edgar Varèse (1883-1965), Circles (1960) di Luciano Berio (1925-2003), Zyklus (1959-‘60) di Karlheinz Stockhausen (1928), ecc.

Folklore. Etnie non occidentali. Ritmi e strumenti nuovi. Il contributo del jazz.
Il declino del codice tonale (comunque fosse percepito) sospinse molte poetiche occidentali del primo Novecento ad investire attenzione e studio nella musica popolare. Una musica semplice e autentica della quale l’industria culturale, con rapace rapidità, fece perdere le tracce sostituendola con quella – né semplice né autentica – di consumo. La musica leggera, quella per gli spot pubblicitari, e molte colonne sonore non sono popolari nel senso che tutti intendiamo. Esse dispensano banalità la quale non caratterizza un censo ma un modo d’essere.
Alla fonte incontaminata del folklore musicale attinsero copiosamente i compositori. Il musicista ungherese Béla Bartók (1881-1945), dopo approfonditi studi etnomusicologici, s’ispirò alla musica popolare ungherese e balcanica rivitalizzando massimamente la propria creatività. Comportamento analogo fu rinvenibile in un altro autore ungherese Zoltán Kodály (1882-1967) e nel compositore ceco Leóš Janácek (1854-1928).
La percussione era preminente in culture e geografie non occidentali. I complessi strumentali di Giava e di Bali, denominati gamelan, e costituiti prevalentemente da xilofoni, gong, lastre di metallo, campane, canne di bambù, fecero la loro apparizione in occidente. Il gamelan – costituitosi in Oriente probabilmente già alla fine del XIII secolo – non fu conosciuto in Europa se non molto tardi, verso la fine dell’Ottocento. All’Esposizione Universale di Parigi del 1889 Claude Debussy incontrò il suono del Gamelan indonesiano e ne fu ammaliato.
L’arte primitiva e la sua versione africana furono sconvolgente scoperta per le avanguardie del primo Novecento. Nell’Africa subsahariana o “Africa nera” l’impiego degli strumenti a percussione (soprattutto tamburi: Tamburo Africano è il nome di un tamburo a fessura) fu sempre diffuso. Chi ricordasse la fortunata e lunga serie di film dedicati a Tarzan, rammenterebbe il frequente ricorso al numinoso suono dei tamburi: un paesaggio acustico inscindibile da quello del territorio africano. Nelle zone arabe dell’Africa furono scoperti molti strumenti a percussione, fra i quali erano diffusissimi i tamburi. Alcuni di questi ultimi arricchirono l’uso colto della percussione.
La musica popolare e la vivace dimensione ritmica che la caratterizzava impressero una svolta all’esperienza compositiva novecentesca. Quest’ultima fu talmente influenzata dal ritmo da convertire in senso percussivo anche strumenti in precedenza utilizzati per le loro valenze armoniche e cantabili. Questa metamorfosi è testimoniata dalla trasformazione subìta dal più prestigioso strumento ottocentesco: il pianoforte. L’uso percussivo che il Novecento fece di questo strumento lo sospinse a divenire componente non solistico dell’orchestra, apparentato più con il settore della percussione che con altri della compagine orchestrale. In Petrouschka (Parigi 13 giugno 1911) di Igor Stravinskij (1882-1971) il pianoforte, presente come strumento dell’orchestra, diede un apporto decisivo alla scansione di icastici ritmi.
Sia i compositori influenzati dal pensiero seriale (Pierre Boulez, György Ligeti, Karlheinz Stockhausen, ecc.) sia quelli di più pragmatico orientamento (Béla Bartók, Sergej Prokof’ev, Igor Stravinskij, Paul Hindemith, ecc.) attuarono una radicale rivalutazione del ritmo. In questa prospettiva sorsero complessi costituiti di soli strumenti a percussione quali I percussionisti di Strasburgo e il Percussion Ensemble di Londra.
Al ritmo è legato il jazz che di ritmo è sostanziato. Al ritmo e al jazz è strettamente connessa la rivalutazione degli strumenti a percussione. Il jazz l’utilizza anche in piccole formazioni: trio, quartetto, quintetto, ecc. Gli organici cameristici sette-ottocenteschi della musica colta occidentale esclusero sempre la percussione. I piccoli organici jazzistici la includono sistematicamente. Tale inclusione attesta quanta importanza il jazz attribuisca agli strumenti a percussione e al ritmo al quale essi rimandano.